Un po' d'amore ed un paio di “bote” rosse.



"Bambini diversi" racconto della sua classe della maestra Stefania
Sono un'anziana maestra in pensione e di bambini ne ho visti tanti, i più, purtroppo, erano i cosiddetti “diversi”. Se chiudo gli occhi li rivedo tutti anche se, talvolta, i nomi volano via come farfalle. Ormai la memoria non è più quella di una volta.
Ricordo il mio primo incarico, in una classe differenziale, in un paesino dell'interno. Quale fu la mia sorpresa quando scoprii che questa era la classe dove venivano relegati “quelli che nessuno vuole”. Certe colleghe mi raccomandarono di prendermela comoda tanto dagli alunni che avevo non ne avrei cavato nulla. La maestra dell'anno precedente, in orario scolastico si era fatta una bella coperta all'uncinetto. A me non restava che comprarmi il cotone. "Tanto – mi dissero – qui il direttore non viene mai....". Ero partita piena di entusiasmo e tanta voglia di fare e mi scontravo con una ben triste realtà. A cosa mi erano serviti tutti gli insegnamenti della dottoressa Rovigati quando frequentavo il corso di specializzazione? Lei col suo"Educhiamo i meno dotati”ci aveva sempre spinto ad amare e lavorare di più con coloro che avevano meno capacità. Cosa fare? Io ero lì per fare la maestra e l'avrei fatta. La classe, che era stata formata dalla fiduciaria su segnalazione delle colleghe che volevano scaricare "i pesi morti”dalle loro classi, era così composta: Due fratelli pluriripetenti (12 e 13 anni) che non frequentavano perché facevano i pastori, un bambino di sei anni con una vistosa voglia scura sul mento che il maestro non voleva in classe perché "mi fa schifo", Tiziano, anche lui sei anni,vispo e bello come il sole ma figlio di una prostituta, una bambina che ripeteva la prima per la terza volta unicamente perché era molto miope e non vedendo nulla non imparava nulla, una cardiopatica che passava i due terzi dell'anno in ospedale. E così via fino ad arrivare alla numero quindici. Questa era Irene, allontanata dalla sua classe perché irrequieta."E poi -disse l'insegnante – è povera e antipatica...sai...io ho la figlia del dottore...del sindaco..." Insomma si era fatta una bella classe scelta.
La prima volta che incontrai Irene mi sembrò di vedere uno di quei gattini randagi che, quando allunghi la mano per carezzarli, soffiano e tentano di graffiare. Aveva sette anni e ne dimostrava quattro,la testa piena di riccioli neri e arruffati. Quando riuscivo a farle sollevare il capo vedevo due enormi occhi scuri sempre pieni di paura e rancore , sembrava odiasse il mondo.
Quando parlo ho l'abitudine di gesticolare, ma se lo facevo vicino ad Irene immediatamente nascondeva la testa fra le braccia e si chinava porgendo la schiena come se dovesse ricevere dei colpi . All'ora di ricreazione tutte le bambine giocavano insieme, lei si sedeva sul gradino dell'ingresso, da sola inoltre non portava mai la merenda, neppure un pezzetto di pane senza companatico come faceva la maggioranza delle bambine. Una mattina sedetti sul gradino accanto a lei e provai a parlarle dividendo con lei la mia merenda, pane e marmellata, una leccornia alla quale non era abituata. Cominciai a parlare piano mentre mangiavo il mio panino. Tra l'altro le dissi che non doveva avere paura quando gesticolavo, lo facevo per spiegarmi meglio."E poi -dissi - le maestre non picchiano". Si girò di scatto e mi disse: "Tu lo dici.....Signorina L. ha una “petia”(bacchetta) per picchiare.". Lei lo sapeva bene perché veniva da quella classe. Detto questo si alzò e si spostò più in la non si sa mai le arrivasse un ceffone.... Malgrado accettasse, tutti i giorni la merenda, era sempre molto diffidente. Dalla bidella, che mi aveva preso in simpatia perché le avevo portato dei fiori per il giardinetto della scuola, venni a sapere che erano una famiglia numerosa, che avrebbero anche potuto vivere bene se il padre non avesse avuto il vizio di bere e, soprattutto quando tornava a casa ubriaco picchiava chiunque le capitasse a tiro. Cosa fare? Parlare con i genitori era assurdo. Il primo pensierino che scrisse Irene fu:<<la mia mesta ale bote (la mia maestra ha gli stivali) e mi disegnò con dei piedi enormi calzati da stivali neri. “Is botas” sono gli stivali in gomma e quell'anno li avevano tutte le bambine tranne lei che aveva un paio di scarponi chiodati ereditati dal fratello maggiore.
Per stimolare questa classe raccogliticcia, mi ero inventata un cartellone con vari traguardi da raggiungere per avere dei premi. Appena Irene raggiunse il primo traguardo la feci accompagnare dalla bidella nel negozio che vendeva gli stivaletti e gliene feci acquistare un paio rossi con le calzine analoghe. Per tutta la mattina la bambina continuò a guardarsi i piedi incredula. Chiesi alla bidella di accompagnarla a casa e spiegare alla mamma che quello era il premio che Irene aveva meritato. La mamma non fece una piega perché sapeva che tanto il marito non le avrebbe mai dato i soldi per comprarle.
Questi stivaletti per Irene furono magici. Ben presto acquistò fiducia in se stessa e negli altri,imparò velocemente a leggere e scrivere e a fine anno”bisticciava” ancora un po' con i numeri ma recuperò l'anno successivo. Irene stette nella mia classe per tre anni poi, dopo averne parlato col direttore, la inserimmo in una quarta con un'insegnante molto brava. Il primo giorno di scuola Irene venne da me furiosa "Ita dd'apu fatu ca mi nci at bogau?" (Che cosa le ho fatto che mi ha mandato via?) Era tornata l'Irene aggressiva del primo anno. Quando le spiegai che non l'avevo cacciata ma l'avevo promossa alla classe dei grandi subito non volle crederci poi parve convinta e tornò tranquillamente nella sua classe. Frequentò le ultime due classi con buon profitto e senza problemi. All'esame di quinta il tema assegnato fu: "Ricordi di scuola”. Irene tra le altre cose scrisse: "Io della scuola mi ricordo la maestra di prima perché mi voleva bene e mi aveva regalato le “bote con le calze dentro."
Quando la maestra mi fece leggere il compito mi commossi e pensai quanto poco ci voglia a far felice un bambino, specialmente se non ha mai avuto nulla: un po' d'amore ed un paio di “bote” rosse.

Stefania Petiti