Ragazzi invisibili


Pochi giorni fa ho letto sulla cronaca di Torino de La Stampa un articolo sull'incremento dei tentativi di suicidio tra gli adolescenti, dato riportato dalle statistiche dell’ospedale Regina Margherita. Nell’articolo, questi adolescenti vengono descritti dagli stessi neuropsichiatri come “ragazzi con potenzialità e risorse intellettive integre, sensibili ma che si sentono inadatti alla vita. Senza fare rumore, apparentemente, ma lanciando molti segnali non colti – calo nel rendimento scolastico, fobia scolare, somatizzazioni, il ritiro da attività o dal gruppo dei pari – si chiudono in casa per mesi, mettono in atto gesti autolesionistici, non mangiano, chiudono i ponti con la scuola”. Proprio per questi “studenti invisibili” è importante che aumenti la sensibilità della scuola e degli insegnanti, sia nel prevenire che nel reintegrare il ragazzo dopo la messa in atto di comportamenti autolesionistici. E Studenti Invisibili è anche il titolo del convegno che si terrà su questo tema il 15 e 16 novembre prossimi.
La lettura di questo articolo mi ha riportato alla mente la vicenda di una mia compagna di classe del liceo, rimasta assente parecchi mesi da scuola, e di cui riporto  l’esperienza, da me raccolta.
 “Avevo da pochi mesi cominciato la seconda liceo scientifico, con risultati molto alti a scuola. Nel contempo avevo iniziato a frequentare un gruppo scout. Era il sogno della mia prima adolescenza andare con ragazzi e ragazze della mia età a camminare in mezzo alla natura, anche perché frequentavo una scuola solo femminile e non avevo molte occasioni per incontrare i ragazzi, che mi facevano paura, ma altrettanto mi attraevano e desideravo il loro sguardo. Da settembre a dicembre di quell'anno realizzai consciamente alcune cose: che non riuscivo a reggere una pressione scolastica così forte, a meno di non accettare e far accettare ai miei genitori e ai miei insegnanti che il mio rendimento calasse; che non riuscivo a reggere fisicamente le uscite di più giorni con gli scout, ma che soprattutto trovavo noiose e stupide le attività che le guide ci proponevano. A livello inconscio capitavano altre cose, e sono certa di non averle esplorate ancora tutte: mi sentivo terribilmente sola e sotto minaccia in famiglia (mia madre si era già rivelata in parecchie occasioni poco affidabile); infine mi ero innamorata di un ragazzo scout che pareva ricambiare, e questo mi terrorizzava.
Nel periodo dell’Immacolata, un fine settimana che inglobava l’otto dicembre, andai in gita tre giorni col gruppo scout. La domenica sera tornai, stravolta. Il lunedì mattina avrei dovuto andare a scuola, ma dissi a mia madre che non stavo bene. Non è che proprio fossi malata, ma già da qualche giorno le mie gambe erano diventate pesanti, di piombo, facevo fatica a camminare, era come se una forza mi tirasse giù. Stetti a letto un po’ di giorni: da un lato dovevo trovare il modo di non tornare a scuola, per non subire più gli stress dei compiti in classe e delle interrogazioni, e la malattia era il motivo più facile da addurre; dall'altro effettivamente qualcosa in me non andava, ma non era una malattia fisica, perché tutti gli esami cui fui sottoposta non rivelarono nulla di anomalo. E’ che io non avevo più voglia di vivere, di fare quella vita perlomeno, ma non riuscivo neanche a immaginarne un’altra. Volevo stare nel letto, dormire e non risvegliarmi più. Sciogliermi nel letto, dissolvermi: un desiderio di morte che non riusciva però a divenire un concreto progetto di suicidio. Ricordo che nell'arco di tre settimane la mia pelle divenne sciupata, pallida e giallognola. I capelli mi pendevano senza vita dalla testa, pronti a cadere da un momento all'altro.

Ero in un vicolo cieco: non potevo parlare ai miei genitori della mia fatica a star dietro ai ritmi e alle aspettative della scuola; ancor meno potevo parlar loro del mio desiderio di morte. Non appena mio padre realizzò che fisicamente non c’era nulla che non andasse, e subodorò che fosse qualche paturnia mentale a ridurmi così, cominciò a minacciarmi: “Se non ti alzi dal letto, ti mando in ospedale psichiatrico, in manicomio”. Mia madre invece era divenuta insistente e lamentosa: più volte al giorno veniva in camera mia e mi chiedeva: “Perché non ti alzi? Alzati dal letto. Vai a farti un giro. Perché non mangi? Perché ti comporti così?”. Non sapevo più come uscire da questa situazione, da questo letto, in cui all'inizio volontariamente mi ero infilata. Avevo il terrore di ritornare a scuola, di essere sottoposta a giudizio nelle interrogazioni e nei compiti in classe. Dopo circa due mesi di assenza riuscii a convincere mia madre a parlare con gli insegnanti per chiedere un periodo di frequenza a scuola esente da prove e voti. Gli insegnanti accettarono e io, con fatica ma con meno terrore, ritornai in classe.

Ero molto fragile e infelice. Una sera, a casa, presi uno spray dallo scaffale dei detersivi e con dolorosa consapevolezza mi misi davanti allo specchio del bagno, per spruzzarmelo in un occhio, e accecarmi. La manovra non mi riuscì, l’occhio lacrimò un po’, ma ero ritornata a vedere quel mondo che detestavo. Nessuno si accorse di niente. In primavera, provvidenzialmente, il mio fisico si ammalò. Mentre la febbre mi divorava per alcuni giorni, dentro di me scattò la decisione di tornare a vivere, di non morire, di guarire e tornare a vivere. E’ stata una lunga risalita, che dura tuttora. Ricordo che uno dei miei primi atti di vita fu quello di scrivere un racconto, una storia d’amore tra due giovani, una storia bella e divertente. Solo al termine della scrittura, passando davanti a uno specchio, rividi i miei occhi, per la prima volta dopo mesi, luccicare.”
Chiara