L’odissea di un wop di John Fante


Da circa un mese è ricominciata la scuola, e nelle classi sono presenti bambini e ragazzi stranieri, nati in Italia da genitori stranieri, o venuti nel nostro paese a seguito di un ricongiungimento con i genitori, già residenti in Italia da qualche anno. Potenzialmente la situazione più favorevole all'integrazione è quella dei bambini nati in Italia da genitori stranieri. Questi bimbi, benché tuttora privi del diritto di cittadinanza italiana alla nascita, hanno frequentato fin dall'asilo i loro coetanei italiani, conoscono bene la lingua (anche se in casa parlano la lingua madre) e sono cresciuti immersi nella cultura e società italiane. Invece i bambini stranieri che arrivano dopo la nascita, magari già negli anni delle scuole elementari e medie, sembrano avere più problemi di integrazione, anche solo sul piano linguistico.
Tuttavia la vita in Italia non è facile neanche per le seconde generazioni, e una testimonianza antica e speculare dello scrittore americano John Fante (1909-1983), nato negli Stati Uniti da emigrati italiani, può aiutarci a capirne i motivi. Nel racconto L’odissea di un wop, Fante descrive gli stati d’animo che hanno costellato il suo percorso di figlio di emigrati italiani, dal rifiuto e dalla vergogna per le proprie radici fino al ritorno al senso di appartenenza alla comunità d’origine, accanto al pieno inserimento nella società americana.
Wop è il termine con cui si chiamavano negli Stati Uniti, con una connotazione perlopiù spregiativa, gli immigrati provenienti dal sud Europa, in particolare da Italia e Spagna. Il senso di diversità ed esclusione, il rifiuto e lo scherno da parte degli americani, passa per Fante proprio attraverso l’appellativo wop, questa piccola ma potentissima parola capace di ricordargli, anche nei momenti di realizzazione di sé e di riconoscimento da parte degli altri, la non adeguatezza delle sue origini. E’ interessante notare come “wop”, e l’equivalente “dago”, fossero usati soprattutto dagli immigrati italiani, per indicare spregiativamente o con sarcasmo i connazionali non ben integrati, di cui ci si vergogna per i modi maleducati e la mancanza di dignità: “Fin dall'inizio ho sentito mia madre usare le parole ‘wop’ e ‘dago’ in un tono che denota un profondo disgusto.[…] Per lei, contengono l’essenza stessa della povertà, dello squallore, della sporcizia. Se non mi lavo i denti, se non mi scappello quando è il caso, mia madre dice: - Non fare così. Non fare il wop -.[…] Crescendo, mi rendo conto che gli italiani usano le parole wop e dago assai più spesso degli americani.[…] Quelle parole non vengono mai fuori serenamente, discretamente. Piuttosto irrompono. C’è questa intonazione sfacciata, e poi è come se qualcuno venisse tramortito, stroncato.”
Ma è quando questo epiteto gli viene rivolto da non italiani, che John Fante bambino percepisce acutamente l’umiliazione: “A me non piace, il droghiere. Mia madre mi manda alla sua bottega ogni giorno, e lui subito mi spezza il respiro con quel suo saluto: - Salve, piccolo dago! Che ti serve? – Lo detesto; non entro mai nella sua bottega se in giro c’è qualche altro cliente, perché esser chiamato dago davanti agli altri è un’umiliazione spaventosa, quasi fisica. Lo stomaco mi si dilata e si contrae, ed è come sentirsi nudi.”   
Fante ragazzino si porta dietro per anni l’incubo di essere chiamato wop (“Fin dal primo giorno, alla scuola parrocchiale, ho il tremendo timore di essere chiamato wop”), ed escogita diverse strategie per sottrarsi a questa potenziale umiliazione. Finge, ad esempio, di essere di nazionalità francese, o che suo padre sia nato non in Italia ma in Argentina. “Insomma prendo a detestare le mie origini. Evito i ragazzi e le ragazze italiane dai modi amichevoli. Ringrazio Dio per la mia pelle chiara e per i capelli, e i miei compagni me li scelgo in base al suono anglosassone dei loro nomi. […] però sto sempre un poco in apprensione quando sono con loro; potrebbero scoprirmi.[…] Sono nervoso quando porto a casa qualche amico: quel posto ha un’aria troppo italiana”. La vergogna per le proprie origini, vissute non come una ricchezza per la loro diversità, ma come un ostacolo all'accettazione da parte degli altri, lo pone in aperto conflitto con alcune delle figure più care all'interno della famiglia, ad esempio la nonna, che ha avuto il ruolo fondamentale di insegnarli la lingua madre: “Poi penso che mia nonna è una wop senza speranza. E’ una piccola contadina tracagnotta che va in giro con le braccia incrociate sulla pancia, una vecchia sempliciotta appassionata di bambini. Entra in camera mia e cerca di parlare coi miei amici. Parla inglese con un pessimo accento, con questo incessante rotolio di vocali.[…] Mia nonna mi ha insegnato a parlare la sua madrelingua. Verso i sette anni, la conosco abbastanza bene, e con lei la parlo sempre. Però, sui dodici-tredici anni, quando ci sono i miei amici, fingo di non capire quello che dice, e faccio dei sorrisi affettati. I miei amici non si arrischiano a pensare che possa parlare altra lingua al di fuori dell’inglese. Certe volte, questo atteggiamento la manda in bestia. Si irrigidisce, le si tende la cute della gola, e allora bestemmia, bestemmia poderosamente.”.
Chiuso nella rabbia e nel rancore, il giovane Fante, che ormai frequenta la scuola superiore dai gesuiti, non si rende conto che la parola wop, che lui connota negativamente, non è sempre un insulto, ma è molto spesso un modo, nella società multietnica americana degli anni ‘30, per indicare una provenienza e una cultura. Ci vorranno alcuni anni, l’ingresso all'università  e l’incontro a Los Angeles con un compaesano amico del padre, cognato di un italiano che come lui si vergogna delle proprie origini, per determinare quello che Fante definisce “ritorno”. Mentre parla in italiano con Rocco, il compaesano del padre, Fante osserva il giovane che si vergogna di essere italiano, e che per questo non parla la lingua madre e finge di non capirla: “Stando lì a guardarlo, mi sento come mio nonno e mio padre e il gesuita e Rocco; mi sembra di essere a casa, e mi sorprende il fatto che questo ritorno, che in qualche modo ho sempre aspettato, sia arrivato così tranquillamente, non annunciato da squilli di tromba né da tuoni”.
Auguro a tutti i bambini e ragazzi stranieri di potersi sentire sempre più italiani senza per questo dover rinnegare le proprie origini, e auspico una scuola in cui tutti -  allievi, insegnanti, personale scolastico – considerino la diversità etnica e culturale di ciascuno un valore, una ricchezza da condividere, e non un dato irrilevante o una vergogna.                       


Chiara