Conversazione con A. Canevaro (1): Scuola e meritocrazia


Pubblicheremo a puntate un'intervista ad Andrea Canevaro che molto gentilmente ci ha concesso. D
1.  In un tuo libro della fine degli anni 70, hai parlato in modo molto efficace di “bambini che si perdono nel bosco”. La metafora bosco/scuola mi sembra ancora molto attuale  per descrivere la situazione della scuola e di tutti quei bambini che si perdono oggi. E’ cambiato qualcosa secondo te? 

La scuola sembra ancora un bosco in cui ci si può perdere. Ma in modi diversi da quelli di quando scrissi quel piccolo libro. Il bosco/scuola è attraversabile senza rischi di smarrirsi se si è dei predestinati. E non nel senso di appartenenza famigliare, o almeno così mi sembra. L’appartenenza famigliare non protegge da incursioni che possono scombinare chi cresce. Non posso non indicare le televisioni come responsabili di incursioni disgreganti. Chi cresce è esposto a molte seduzioni che scombinano la vita. Ma non chiedo di organizzare vite di clausura. Mi domando come abbiamo fatto a corrompere a tal punto il linguaggio da utilizzare il termine “merito” e il suo derivato “meritocrazia”. A volte sembra che con meritocrazia si desideri regolare dei conti, in particolare con l’idea  di una scuola aperta e accogliente per tutte e tutti. Mi piace citare Luigi Ciotti: “[…] dobbiamo augurarci tutti – e noi  adulti per primi - di essere analfabeti. Quell’analfabetismo che non ci fa mai  sentire arrivati, chiusi in illusorie certezze, ma disponibili allo stupore da cui nasce prepotente il bisogno di capire” (L. Ciotti, 2011, La speranza non è in vendita, Firenze-Torino, Giunti-EGA,  p. 116). E aggiungere Kipling: “Tutti quelli che ci assomigliano sono Noi, e tutti gli altri sono Loro” (R. Kipling, We and They). Il merito sembra riconosciuto unicamente se assomiglia al mio, al nostro. Per chi ha questo merito, indipendentemente dalla famiglia da cui proviene, il bosco vuol dire un sentiero tranquillo.

Preferisco un merito da scoprire, sentendosi sanamente analfabeti, come aveva fatto Paulo Freire sentendosi analfabeta di fronte a contadini che si  ritenevano analfabeti ma conoscevano molte cose che Freire ignorava.
Riscopriamo il valore delle parole. Sentiamoci analfabeti. Troveremo la speranza.
Per una certa occasione, ho scritto, e mi autocito con presunzione. Merito è una parola molto utilizzata, soprattutto nel suo derivato meritocrazia. Uno degli obiettivi, e uno dei vanti, di un certo modo di proporre un progetto politico fa riferimento alla necessità di restaurare i principi meritocratici. Che, nella corruzione delle parole, sono intesi come meriti da confermare. Chi nasce fortunato, e chi nasce sfortunato. Secondo questo presupposto, i principi meritocratici possono essere interpretati come l’individuazione il più possibile precoce dei fortunati, i meritevoli, che devono ricevere tutte le attenzioni. Mentre gli altri, gli sfortunati immeritevoli, devono essere messi in condizione di non far perdere tempo, energie e soldi. Per questo, coerentemente, è non solo inutile ma dannoso come ogni sperpero: organizzare tempo pieno scolastico, insegnanti specializzati per l’integrazione, compresenze, e altri accorgimenti didattici. E nelle università è dannoso perdere tempo, energie e soldi per la ricerca didattica che tenga conto dei bisogni speciali di alcuni, gli sfortunati. In questa impostazione, risultano spese improduttive quelle che riguardano quel settore che viene sovente indicato come “il sociale”, e che si occupa di soggetti problematici (sfortunati e immeritevoli).
Le spese considerate improduttive sono sempre le prime candidate ad essere tagliate. E’ evidente che questa concezione di principi meritocratici ha un risvolto economico di grande importanza. L’individualismo di questi principi é rinforzata, e si rinforza, con una dimensione individualistica dell’economia. Ma una dimensione individualistica dell’economia può avere prospettive di futuro unicamente rinforzando le difese – e quindi spendendo ma in difese… - nei confronti degli altri.
Il merito, e il demerito, come destino, favorevole o avverso, ma sempre individuale. E il merito come carta di credito ricevuta dalla fortuna e che permette di sfuggire al faticoso calcolo della realtà, al pesante sacrificio che rende possibile ciò che si desidera. Mette fuori gioco la fatica del lavoro per un progetto. Mette fatica e strategia al servizio della caccia alla fortuna. Illude che si possa vivere avendo immediatamente ciò che si desidera e che non si è ancora conquistato. E quindi deforma la percezione della realtà: viene ingigantito mostruosamente il presente, cancellando o quasi passato e futuro. E’ uno dei motivi della diffusione di quel tipo di malessere che chiamiamo “disturbo della bipolarità”, che alterna momenti di euforia e momenti di acuto senso dell’inutilità e del fallimento, e che può portare a consumi rischiosi.