E se la valutazione fosse... inutile?

A scuola la frenesia incalza: - Dobbiamo preparare altre schede di verifica! È importante dare agli allievi un rimando che faccia capire a che punto sono.
Ascolto attonita e incalzo i colleghi: - Pensate davvero che abbiano bisogno di sentirselo dire? Da soli non capiscono la loro difficoltà? E quando avremo detto loro quello che ancora non sanno fare, impareranno di più?
La faccia dei miei interlocutori si fa interdetta: non sanno rispondere.
Certo. Abbiamo toccato il nocciolo della questione.
Gli allievi sono in grado di capire il percorso che hanno fatto, oppure no?
Attenti a rispondere: la questione è delicata!
Se rispondiamo in forma negativa, significa che abbiamo ben chiaro chi sono i nostri allievi:

degli inetti, incapaci di intendere e di volere, così immaturi e “verdi” da dover essere condotti passo passo nella comprensione del loro cammino; a loro, insomma, dobbiamo dire tutto, sennò “non ci arrivano proprio”.  A noi il compito di dover pensare una serie infinita di test, dai prerequisiti ai quesiti iniziali, a quelli in itinere, a quelli finali, senza lasciare mai nulla di non detto, non sottolineato, rimarcato, incasellato, visualizzato. Solo così quei poveri imbecilli che dobbiamo istruire potranno vedere il loro percorso nero su bianco, magari con qualche diagramma di flusso che evidenzi quanto stanno calando nell’ultimo quadrimestre.
Oppure…
Proviamo a interrogarci: pensiamo alla nostra storia e con sincerità contiamo quante volte ci è stato di stimolo al miglioramento, il rimando esterno di qualcuno che sottolineava i nostri traguardi incompiuti. Beh, non so voi, forse io sono stata sempre un po’ ribelle, ma ho ancora nitido, dopo 40 anni, il ricordo della mia maestra, il dito puntato e le vene gonfie sul collo che gridava:
Ancora 7 errori nel dettato! 7 su 10, una vergogna! Dopo tutto il tempo perso a spiegare quando mettere la è o la e, continui a sbagliare”!
La verifica era il venerdì, puntuale, fissa, inderogabile, a ricordare a tutti noi le nostre imbecillità. L’effetto della presa di coscienza su di me e sulle mie compagne,  non ha mai funzionato, a parte il fatto di aver suscitato una tale insicurezza da indurmi a pensare di essere la sola deficiente della terra che non avrebbe mai imparato a distinguere verbo e congiunzione. Contro ogni aspettativa, appena l’incubo della scuola primaria (e della maestra), per grazia ricevuta, finì, d’incanto, senza perché, capii tutto e per sempre.
Quei numeri, 7 su 10, quel rimando così oggettivo e inappellabile, non ha mai prodotto crescita né curiosità, solo disincanto.
Quando si  insegna con l’idea che gli allievi siano i protagonisti del loro percorso di apprendimento, è tutta un’altra faccenda! La verifica non è mai un dato, un numero, una cifra, una casella, una risposta esatta: la verifica è auto-riflessione.
Quando insegnavo ai piccoli, prima elementare, chiedevo spesso: - Vi sembra di aver capito? È meglio rivedere qualcosa oppure proseguire?
Avevano  6 anni i miei allievi, eppure ogni volta mi sorprendeva la schietta lucidità di cui erano capaci: - Facciamo ancora un po’ questo lavoro, così mi sento più sicuro – rispondeva Luigi, non certo il primo della classe.
È facile a 6 anni l’auto-riflessione? Difficile a 12, a 16…?
No! Siamo stati tutti adolescenti e sappiamo come a quell’età si pesi ogni cosa: la relazione, l’amicizia... la giustizia. L’età della bilancia non ammette sconti per nessuno, tantomeno per se stessi. Gli adolescenti sanno benissimo quanto è coraggioso o traballante il loro percorso di apprendimento, conoscono perfettamente il livello del loro scarso impegno e come compiere con forza un’accelerata che fa recuperare.
Perché allora non si muovono?
Perché, da quando sono nati, il loro agire è spinto, speronato, disciplinato, organizzato, controllato da qualcun’altro al di fuori di sé.
Quali spazi esistono per la riflessione? Quali momenti per guardarsi dentro e scegliere da che parte andare, come, quanto e se accelerare o rallentare il proprio cammino?
Crediamo davvero che saranno le nostre ramanzine a farli riflettere! Le lavate di capo, che sottolineano i livelli di ciascuno, sono spazi giudicanti che inducono gli allievi a trovare strategie per non fare la figura del cretino davanti ai compagni. Se l’insegnante sottolinea i miei limiti, quelli diverranno la mia forza: sarò il più rimproverato della classe, quello che colleziona più note, quello che andrà più volte dal preside…la mia gara con l’autorità mi vedrà vincitore…del peggio! D’altronde, se non è possibile vincere, almeno ci si guadagni l’onore di una perdita gloriosa, che tutti ricorderanno!
Ecco perché la valutazione non porta alcun risultato. Ecco perché, nonostante più di un decennio di INVALSI &C e migliaia di parole sprecate a giustificarne costi e metodi, siamo sempre gli ultimi della classe.
Qualcuno dovrà pur dirlo: questa valutazione non funziona!!!
Se vogliamo fare progressi nell’apprendimento, togliamo i voti, le schede di verifica, i test,  le pagelle: istituiamo spazi di auto-riflessione in contesti in cui la relazione sia l’elemento fondante e i ragazzi sentano di non essere giudicati. Regaliamo loro tempi e modi per scegliere il ritmo della corsa e le pause. Insegnamo loro la metacognizione in cui osservare i passi fatti e quelli da fare, individuare da soli le difficoltà e i nuovi traguardi, proporre cosa approfondire e cosa tralasciare.
Allora, solo allora, la consapevolezza degli allievi, anche quella dei maggiori provocatori, potrà esprimersi e dire ad alta voce: “Credo di aver ancora tanto da imparare”.
Grazia Liprandi