Il metodo Feuerstein e la mediazione didattica
Ringraziamo
Paola Vanini Docente, ricercatrice presso
IRRE - Emilia Romagna che ci ha mandato un suo intervento molto interessante su
“Il metodo Feuerstein e la mediazione didattica”.
Il metodo
Feuerstein è stato elaborato e messo a punto nello stato di Israele, alla fine
della seconda guerra mondiale, come sistema
di recupero delle abilità cognitive e relazionali in ragazzi a forte rischio di emarginazione,
a causa dell’atrocità delle esperienze vissute.
In
molti punti abbiamo ritrovato un comune sentire e ci permettiamo di
sintetizzare l’intervento che è molto più articolato.
La
proposta di Feuerstein, non è una
tecnica, ma una sorta di “filosofia
in atto”. Significa credere che è
possibile “insegnare a pensare” e quindi
possibilità del cambiamento, per ogni essere umano.
Lavorando a fianco di un “mediatore”, “il soggetto si impossessa di una serie
di modalità cognitive che sarà poi in grado di utilizzare
autonomamente”.
Diventa fondamentale
dunque capire cosa l’alunno sa
fare da solo, cosa lo interessa, per studiare
le proposte e consentirgli di
“agganciarsi” al compito con probabilità di successo, bisogna, cioè, capire
qual è il suo “potenziale di
apprendimento”, concetto teorizzato dallo studioso russo Vygostzky. “L’orientamento, infatti, ha molto a che
fare con l’affacciarsi di
potenzialità individuali, che emergono grazie all’azione maieutica di un
adulto competente, e con la loro realizzazione
nella direzione più consona alla persona”.
Nell’attività di apprendimento mediato vengono
rafforzate
anche le componenti emotive della
personalità: la concezione dell’essere umano sottesa
alla prospettiva di Feuerstein è profondamente olistica: ognuno di noi è
un’unità inscindibile in cui mente, cuore e corpo funzionano insieme.
Parliamo
quindi di un’esperienza di “apprendimento
mediato” e il metodo Feurestain si realizza attraverso quelli che vengono chiamati “criteri di mediazione”. Accenniamo ad alcuni di questi
La mediazione di
intenzionalità e reciprocità che “Significa innanzitutto essere consapevoli di quello che si vuole
comunicare, selezionare ciò che è importante che sia colto: di tutto
quello che si farà o si dirà l’indomani con gli alunni, cosa è
necessario che sia recepito, cosa deve
far breccia”. “Intenzionalità
significa anche entrare in contatto con
gli alunni e, nel momento in cui ha
inizio il lavoro con loro, attivarne
l’attenzione, rendere trasparenti gli
obiettivi da raggiungere insieme,
perché li sentano propri, si attivino e finalizzino in quella direzione le loro energie intellettuali.
Spesso, nelle nostre scuole, il progetto
della lezione è tutto “ nella testa” del docente; gli alunni, come mere
comparse sulla scena, seguono, se possono, senza partecipare alla regia”.
Ma in caso di insuccesso bisogna saper rivedere gli obiettivi, ricalibrare
gli strumenti, cambiare il modo di
proporli, modificare le condizioni
ambientali ( disposizione dei banchi,
collocazione di chi insegna rispetto alla classe, ecc) per riuscire ad interpellare gli alunni.
La
mediazione di trascendenza significa “andare oltre” e anche “guardare oltre”, al di là dell’obiettivo
specifico
e limitato che si intende raggiungere in ogni lezione. La prospettiva della “trascendenza” considera infatti ogni
obiettivo da raggiungere come un’opportunità per allenare, nel contempo, una
serie di funzioni cognitive, direttamente o collateralmente implicate nel
compito, che entreranno in gioco poi in una quantità di altre occasioni di
apprendimento: si potenziano così gli strumenti per il futuro.
La mediazione del
significato consiste
essenzialmente nell’aiutare gli allievi a cercare la chiave per cogliere
il significato degli stimoli in
cui si imbattono e per
interpretarli. Vuol dire
individuare il senso di un argomento, di una scelta, attribuire alle cose un peso, un
valore. La
mediazione del significato è spesso introdotta dalla domanda: “Perché…? ”
L’insegnante fa una
mediazione del significato, per esempio,
quando fa emergere con la classe, l’interesse che prova per certi argomenti,
quando riesce a parlare alla mente
degli alunni con la forza del cuore e sa trasmettere loro, con la sua presenza, l’immagine di un adulto animato da
interessi, che dà un peso alle cose,
che non trascina la sua vita, non la butta via;
un adulto che argomenta con
coerenza le sue scelte e chiama i suoi studenti a fare altrettanto, a interrogarsi sul significato delle
esperienze, delle regole che assumono,
delle azioni che intraprendono.. sul
significato della vita, in definitiva, senza
togliere loro la fatica di cercarlo. La ricerca del senso è sicuramente una delle dimensioni
dell’apprendimento e della relazione educativa più connessa con l’orientamento.
Mediazione
dell’individuazione e della differenziazione psicologica. Mediare l’individuazione
psicologica significa cogliere le opportunità che il lavoro scolastico
offre per sostenere ogni alunno nel suo percorso di differenziazione:
dalla famiglia, dai coetanei, dalla scuola, dal modello stesso offerto dal
docente, perché egli si percepisca come
un individuo unico nella classe, non
come parte amalgamata in un tutto. Vuol dire rivolgersi a lui non genericamente, come alla media della classe,
ma in modo particolare, con attenzioni e riferimenti specifici alla sua
persona, al suo comportamento,
perché egli capisca di esistere agli occhi dell’insegnante,
senza confusioni, se ne senta interpellato,
chiamato per nome.
La vita scolastica può offrire ai ragazzi tante opportunità di scoperta
delle proprie peculiarità, in particolare se il docente stimola i ragazzi a cimentarsi in ruoli diversi;
se incoraggia elaborazioni personali e
divergenti e accoglie, senza reprimere o criticare interventi che appaiono non
pertinenti, dando modo all’alunno di
spiegare le sue posizioni; se prevede
fasi di lavoro dedicate al confronto, non solo dei risultati dei compiti, ma anche dei processi, delle
opinioni, evidenziando con i ragazzi la pluralità
dei punti di vista, valorizzando la differenza
e la peculiarità di ogni contributo
come ricchezza. Gli alunni, in questo modo, toccano con mano le loro differenze e fanno esperienza della loro
unicità. Si tratta di un
compito evolutivo determinante, dice E. Erickson, senza il quale si rischia di
uscire dall’adolescenza con un pericoloso senso di stallo, di “
identità diffusa”.