Il pericolo della classificazione

Parlavo quest’estate con il figlio di una mia amica di otto anni, gli chiedevo cosa avrebbe fatto nel mese di luglio. Mi ha risposto. “Devo fare un corso di recupero, perché… - e rivolto al papà – perché chi sono io papà, sono un disl…”, il padre interviene in suo aiuto: “dislessico”. Al di là di ogni considerazione sulla diagnosi fatta a questo bambino, fonte in questi giorni di qualche polemica, io penso che i bambini non dovrebbero identificarsi in essa, dovrebbero sentirsi bambini e basta con il loro nome e cognome.
Le diagnosi possono servire per gli studiosi, ma mai dovrebbero etichettare un bambino o un ragazzo.
Non è immaginabile lo  stato di frustrazione derivante dall'essere inchiodati a una definizione che distorce e mutila la propria complessità psichica. Questa sofferenza l’ho letta negli occhi di questo bambino, nella sua sofferenza di sentirsi "segnato" da una diversità che veniva considerata come un marchio.

“Il pericolo è  quell'essere 'denominati', - afferma Binswanger - cioè "etichettati e cristallizzati in una forma che tradisce sempre la nostra ricchezza interiore".
Al contrario, la  forza e la verità dell'individuo albergano proprio nella sua incommensurabilità, nel fatto che nessuno potrà mai distruggere la sua  unicità.
Settorializzare la visione del bambino vuol dire veder spesso le difficoltà come insormontabili, ci impedisce di vederlo nella sua vera luce, nella sua specificità psicologica e ci impedisce di coglierne quindi le potenzialità.
“Stigmatizzare un bambino significa impedirgli di evolversi, di sottrarlo alle sue potenzialità creative, vuol dire non vederlo nelle sue potenzialità ma così come lo vogliamo vedere noi nel confronto con un bambino “ideale” (di cui abbiamo un’idea in testa come genitori e come insegnanti)

La nostra pochezza, ci dice Miguel Benasayag è tale che "riusciamo a cogliere dell’altro, molto più spesso il limite, la negatività, la debolezza del tratto ‘negativo’, piuttosto che gli aspetti più luminosi”.
E’ per questo che dobbiamo, anche nel convegno che ci sarà a Reggio Emilia, confrontarci per costruire una scuola che sappia vedere nei nostri allievi, individui non etichettabili, una scuola che riconosca “la molteplicità”: ogni individuo, infatti,  si può esprimere in diversi modi  e
"questo riconoscimento non dovrebbe riguardare solo le persone che hanno problemi, ma anche quelle che si considerano “normali”, affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di ‘normale’, per poter assumere e abitare le molteplici dimensioni della fragilità (…) Infatti è proprio là dove nessuno guarda, in quel ‘niente da segnalare’ della norma che una serie di esseri umani vivono nella paura permanente di ‘dover essere forti’, ‘all’altezza’’” recidendo “ogni legame con le dimensioni della propria fragilità e complessità"
Miguel Benasayag – L’epoca delle passioni tristi
Illustrazione di Roberta Angeletti