Prima del dialogo la capacità di ascoltare

In una scuola che sappia fare della democrazia la sua pedagogia è fondamentale come abbiamo già detto in altri post che ci sia dialogo. Ma non esiste dialogo, dove non ci sia ascolto.
L’ascolto ha luogo in uno spazio inter-soggettivo:  qualcuno chiede di essere ascoltato e si aspetta l’attenzione dell’altro. Si rivolge all’altro non in modo casuale, ma perché si aspetta qualcosa da lui. Sente che proprio quella persona e non un’ altra possa aprirsi non solo alle sue parole.

Ma il fatto che qualcuno desideri essere ascoltato non significa necessariamente che riesca a comunicare quello che vuole dire con le parole.

Più un bambino ha sofferto, meno saprà raccontarsi, esprimere il proprio dolore con le parole, nè lo potrà fare un bamino o un ragazzo che non padroneggia tutte le sfumature di una lingua.
Dice Simone Weil che, in generale, il pensiero della sofferenza non è discorsivo, non si costituisce in unità logiche e rigorose di significato, ma si smarrisce «come una mosca che corre sempre contro un vetro» che vuole uscire, ma che non trova il modo.

E' per questo che per metterci in ascolto dobbiamo saper fare silenzio dentro di noi, far tacere le tante parole che giudicano, che stigmatizzano, che interpretano, che a tutti i costi vogliono trovare soluzioni veloci. Le parole che presumono di aver già capito senza prima di aver affiancato, condiviso, amato. Solo da questo silenzio può nascere l’ascolto, un silenzio che è spazio, apertura all’altro. Un silenzio, per dirla con la Weil, che ci «permette di cogliere verità che altrimenti resterebbero celate per sempre». Solo allora capiremo che ascoltare non è solo porgere l’orecchio ma aprirci al mondo che ci circonda.
Pierre Sansot parla di «interiorità creativa» e con questo termine indica «quello spazio di accoglienza in cui le parole dell’altro potranno trovare rifugio» .

E' quello che ha saputo fare Marta con quel bambino di cui ci ha parlato nel precedente post e che nella sua attenzione ha trovato rifugio.
Ascoltare vuol dire percepire anche ciò che non viene detto, che è ancora nascosto nelle pieghe dell’anima e fa fatica ad emergere.

Non sempre si riesce ad entrare nel mondo dell’altro, a volte ne rimaniamo ai margini in un ascolto che è  attesa di qualche apertura. A volte qualche apertura c’è, ma possiamo subito dopo ritrovare la porta chiusa. È importante rendersi presenti e attenti. Non bisogna soprattutto cercare nulla di preordinato, di prefigurato, di risaputo.
Può essere, invece, un silenzio di attesa: non si trovano le parole, ma si vuole entrare in contatto. Allora è il corpo che parla: gli sguardi, i movimenti delle mani, la postura, la rigidità o la rilassatezza dei muscoli. I gesti non hanno bisogno di parole e a volte sono più determinanti nello stabilire una relazione.

Non bisogna aver fretta di capire, né di essere capito. Ascoltare è conoscere la pazienza, la lentezza, imparare a convivere anche col silenzio che è esso stesso linguaggio e come tale può esprimere diversi significati. Come dice Marta in uno dei suoi commenti: "Certo F. mi ha richiesto tempo, tento tempo e con lui molti dei suoi compagni, ma è un tempo che non si conta in ore e minuti bensì in attenzione e investimento affettivo"

Io penso che la comunicazione cominci proprio dalla capacità di accogliere il silenzio, la parola balbettata, quello che ancora il bambino non è in grado di dire, ma che sente. Comincia dove c’è attenzione, interesse,  in quel silenzio che è apertura.
L'ascolto inizia quando l'altro sa di potersi fidare di te. E la fiducia bisogna guadagnarsela. Ma di fiducia parleremo un'altra volta