Troppe stragi nelle scuole americane ci interrogano...


Quello che è successo nella Sandy Hook di Newtown, in Connecticut, è un evento terribile che è davvero difficile, se non impossibile commentare. Non ci sono parole, solo il silenzio che aiuta a pensare, può onorare la memoria di quei bambini e di quegli adulti che hanno perso la vita per mano di un ragazzo ventenne. Come dice Zucconi su Repubblica, però, “Nel domandarci "chi" e "perché" questo ventenne italo americano di mite classe media, figlio di un'insegnante, allevato nella quieta noia di sobborghi alla Charlie Brown abbia potuto concepire una strage del genere contro i propri fratellini, infatti si evita sempre di porre la domanda essenziale: il "come". E punta il dito sulle lobby di armi che, per il loro losco interesse, pensano solo a diffondere armi in tutto il paese. Armi che costituiscono “il moltiplicatore di potenza che trasforma un uomo qualunque in una macchina da guerra”.
Le stragi a scuola purtroppo si moltiplicano in America e non solo bisogna in qualche modo parlarne. Ne aveva parlato un film  uscito nel 2003 che racconta la strage compiuta da due studenti nei confronti di compagni e professori nel liceo di Columbine negli Usa: Elephant di Gus Van Sant.

Un giorno qualunque nella periferia statunitense. Una normalissima giornata in una scuola americana. Ed è nella normalità di tutti i giorni che può succedere in modo imprevedibile qualcosa che può sconvolgerci e lasciarci senza parole. Forse questo ci voleva comunicare Van Sant, il regista di Elephant: è alla normalità che dobbiamo guardare, là dove nessuno guarda e tutto può accadere a volte nella nostra completa disattenzione. Forse la cosiddetta "normalità" si sta ammalando e i primi a farne le spese sono i bambini e i giovani. Noi adulti siamo distratti, spesso assenti, proprio come nel film in cui i giovani sembrano vivere in un mondo a parte.Il titolo, Elephant, si ispira ad un’antica parabola buddista: tre ciechi, toccando chi l’orecchio, chi la zampa, chi la proboscide di un elefante, sono convinti di capire la vera natura dell’animale, che diventa di volta in volta un ventaglio, un albero, una corda, un serpente, una lancia… Nessuno di loro può vederne l’insieme e, quindi, la verità.
Nel confrontarci col male, con questo pachiderma enorme, ciascuno di noi si comporta come uno di quei ciechi. Crede di poterlo spiegare soltanto perché ne ha conosciuto una singola parte o un aspetto circoscritto. Crede di capire come è fatto, sulla base di ciò che ritiene di aver capito. Ma questa impresa si risolve in un fallimento. Per quanto grande sia ciò che vorremmo descrivere, e per quanto ci sforziamo di coglierne i dettagli, di fronte al male, alla sua mole imponente, all'insorgere improvviso della sua forza, siamo tutti ciechi. Crediamo di sapere e non sappiamo nulla, e per la nostra presunzione non accompagniamo, non affianchiamo chi ci sta accanto, non cerchiamo di comprendere, impariamo solo a giudicare.

In Elephant l’indagine psicologica dei personaggi è volutamente assente. Conosciamo il biondissimo John e la sua maglietta gialla con l’icona del toro spagnolo, che ha a che fare con un padre etilista di cui si deve occupare.
Conosciamo Elias, alto, magro e che gira facendo fotografie e Benny con la canottiera gialla e le treccine rasta, e tanti altri ma di loro sappiamo ben poco a causa degli scarni dialoghi e relazioni.
Ogni personaggio viene presentato sorpreso nella sua vita quotidiana. C'è chi vive l'amore acerbo dell'adolescenza, chi si sente brutto e inadeguato, ci sono le ragazze anoressiche assillate dalla loro bellezza. Sono storie così comuni, ragazzi come tanti, felpa e scarpe da ginnastica.

Van Sant nel girare il film adotta una tecnica sofisticata: macchina in spalla segue e precede i personaggi dentro e fuori la scuola: spazi vuoti, entrate e uscite che tracciano un labirintico avvicinamento alla crisi omicida del finale.
Ognuno di loro non sembra immerso in un contesto realmente “sociale”, i rapporti appaiono frammentati in un quadro complessivo refrattario a qualsiasi idea di unità. Individui qualunque, non veri e propri personaggi. E il regista fa uso del piano sequenza, ovvero una ripresa in continuità e in movimento che segue il soggetto senza operare tagli, stacchi di montaggio, ma anche quasi sempre del grandangolo, un obiettivo che dilata gli spazi isolando ulteriormente le figure dallo sfondo, facendole apparire minuscole rispetto a un contesto di volta in volta sempre più dispersivo.
La realtà che viene mostrata in Elephant, inoltre, non è quella scritta da uno sceneggiatore e messa in scena dal regista, ma è rielaborata dagli interpreti del film – dei veri liceali di Portland – a partire da un canovaccio di situazioni e suggestioni messo a punto da Van Sant. Ai ragazzi è stato chiesto di improvvisare situazioni assolutamente normali, ordinarie su cui irrompe l’inaspettato e incontrollato precipitare degli eventi, la violenza, la morte.

Il male in genere viene sempre dall'altro  arriva dall'esterno  Il cattivo è un diverso, un emarginato. E su questo diverso, su questo colpevole, il pubblico può scaricare le sue paure e le sue responsabilità. Ma alla Colubrine School, e nel film di Van Sant, gli studenti della tranquilla cittadina di provincia saranno massacrati da uno di loro, dai figli di quello stesso benessere. Non c’è più il mostro, la lotta del non-integrato contro chi lo emargina: ciò che resta è l’atroce implosione del sistema su se stesso.
Uccidono per noia e sazietà, uccidono il proprio uguale, se stessi. 
Il regista rifiuta ogni spettacolarizzazione, ci offre un film disabitato, straniante, inchiodando il nostro sguardo sul nulla che circonda questi ragazzi. Vediamo nel film una serie interminabile di corridoi (un vero e proprio labirinto), divisi da stanze più o meno grandi, spesso vuote. Emblematica la scena di una delle ragazze seguite, Micelle, quando entra nella palestra: Van Sant la riprende mentre cammina in uno spazio che sembra enorme, completamente vuoto, interminabile, come fosse un deserto: tutto è pulitissimo, nitido, sterile, asettico. La musica elettronica (quasi impercettibile) contribuisce a dare un sensazione di irreale. Non c’è traccia di passato né di futuro, non ci sono adulti che guardano che partecipano: giovani e adulti sembrano appartenere a due universi completamente diversi, troppo lontani. Ed è in questo oggi senza passato e senza futuro che il niente domina la scena E anche la morte è ridotta a gioco: “Dobbiamo soprattutto divertirci” dicono i due assassini prima di cominciare.
Elephant non è il solito film violento. La violenza che viene raccontata è svuotata d'intenzionalità ed immotivata, e proprio per questo ancora più intollerabile. Una situazione in tutto e per tutto simile a quella descritta appunto da Hannah Arendt, con riferimento al criminale nazista Adolf Eichmann: “quando i moventi diventano superflui, allora il male diventa banale”.
Sempre di più i luoghi che abitiamo sono anonimi, senza anima, la scuola soprattutto nella fretta di travasare contenuti si dimentica che alla base di ogni sapere ci deve essere dialogo e relazione, altrimenti è un sapere vuoto, arido che non arricchisce, ma che allontana, che non scalda cuori, ma li raffredda.
Forse se non ci fosse stata davvero la strage alla Columbine, la scuola americana in cui due studenti fecero irruzione armati fino ai denti facendo fuoco all'impazzata su compagni ed insegnanti, non avremmo creduto alla furia sanguinaria di questo film. Ed invece è accaduto come accade ancora purtroppo. La realtà ferisce l'immaginazione. E sono ferite che non si rimarginano.
Ieri sono stati uccisi 20 bambini che non avevano nessuna colpa, insieme a sei adulti. 
Quello che possiamo realisticamente fare è di occuparci dei nostri bambini e dei nostri ragazzi, di essere adulti che fanno di tutto per prendersi cura di loro, per ascoltarli e dialogare, per creare una scuola che pensi a tutti, ma proprio a tutti. Questo è costruire una scuola democratica, Non possiamo rimediare al male gigantesco raffigurato dall'elefante, ma possiamo fare in modo che là dove siamo i ragazzi stiano bene con noi e con i loro compagni. Questo non ci stancheremo mai di dirlo.
E dobbiamo costruire una società in cui la violenza sia bandita, una società in cui si persegua la pace che non è - come dice Marìa Zambrano - soltanto assenza di guerra. Se i ragazzi "sparano" siamo noi adulti ad averglielo insegnato:
"..non si avrà uno stato di vera pace fino a che non vi sia una morale vigente e effettiva incamminata verso la pace, fino a che le energie assorbite dalla guerra non vengano incanalate, fino a che l'eroismo non incontri vie nuove, l'eroismo di coloro che basano sulla guerra il compimento della loro vita, fino a che la violenza non sia cancellata dai costumi, fino a che la pace non sia una vocazione, una passione, una fede che ispira e illumina".