Perché?


Lavorare nel sociale non è facile. Lavorare nella Scuola non è facile. Lavorare in campo educativo non è facile. Oggi come oggi aggiungerei anche che “lavorare e basta” non è facile...! Questi tre non-facili settori che ho citato condividono il fatto che, a volte, sul lavoro, si ha a che fare col Disagio. Cioè, con persone che vivono situazioni di disagio;  qui direi che il campo è abbastanza vasto: dal bambino che ha difficoltà ad inserirsi a scuola, all'handicap super grave passando per il caso sociale di turno. Quando si incontra il Disagio, incarnato in una delle sue infinite rappresentazioni, si verifica spesso una situazione abbastanza particolare, di fronte alle difficoltà altrui ci si pone una fatidica domanda: Perché? Questa a volte si declina anche in “Come mai?” ma il fondo è sempre che  si palesa una volontà di comprensione delle cause del disagio (altrui) con cui ci confrontiamo.

Nel caso di un handicap è questo il momento in cui ci si rivolge, fiduciosi, alla medicina per essere illuminati e, effettivamente, a volte funziona; conoscere la causa organica di una malattia può essere  un passo avanti verso la cura o fornire informazioni essenziali sul modo di trattarla e solo uno sciocco rifiuterebbe di riconoscerne l'utilità. Altre volte invece la medicina non sa bene che pesci pigliare, non è una scienza esatta, e si limita a descrivere un sintomo e a certificarne l'esistenza.  Quando non è il caso di un handicap il “perché” si fa ancora più sfumato, i legami causa-effetto che stanno dietro al comportamento problematico di un bambino non sono evidenti e magari nemmeno esistono. Il Disagio può essere il risultato di tanti fattori, troppi per identificarne uno solo o un gruppo preciso.
Queste sono le situazioni migliori perché è qui che comincia lo scarica barile! Le famiglie guardano con sospetto alla scuola, gli insegnanti mettono in dubbio l'adeguatezza dei genitori, gli educatori si lamentano delle/degli insegnanti e poi.....”una volta non era mica così!”, “ai miei tempi era tutta un'altra musica!” e “non ci sono più le mezze stagioni”, “i politici sono tutti ladri...” ecc ecc.
Una domanda nasce spontanea: a che cosa serve chiedersi “Perché?” Quale utilità ha andare alla ricerca delle cause ultime, delle ragioni profonde e nascoste?
Probabilmente anche trovassimo una risposta a queste domande non sapremmo cosa farcene. Faccio un esempio un po' stupido: sapere che l'autismo ha origini genetiche,  non ci aiuta granché, almeno nell'immediato, a lavorare con una persona autistica.
Ciononostante trovo che la domanda “Perché?” abbia in sé stessa un potere e un valore enorme. Se ad esempio provassimo ad applicarla a ciò che facciamo scopriremmo che molte volte il nostro agire non è supportato da alcuna riflessione. Quante sono le routine, i riflessi, i modi di dire che usiamo “perché è così” ma che potrebbero essere diversi? Quante volte la spiegazione di un comportamento che mettiamo in pratica sul lavoro non va oltre la facilità o la riproduzione di ciò che noi stessi abbiamo precedentemente vissuto? Se invece delle cause del disagio investigassimo a suon di perché il nostro agire quotidiano di professionisti dell'educazione, lavoreremmo certamente meglio. Dico “certamente” perché mettere regolarmente in discussione il proprio agire, sottoporlo alla prova del dubbio mette al riparo dall'errore e dalla banalità. Quanto è triste e mediocre  essere chiamati a lavorare sull'educazione di qualcuno (con qualcuno!!) e fare le cose senza un motivo?! In questo senso essere puntigliosi, sollevare delle polemiche, diventa praticamente un dovere; se ci vogliamo raccontare e presentare come professionisti è necessario essere pronti a mettere in discussione e a ricevere delle critiche, non  ad accontentarci. Innovare non è solo una possibilità, una scelta tra alternative equivalenti, ma un'occasione. Se lavorare, oggi, non è facile, farlo senza creatività è sicuramente un peccato.
Stefano, educatore