IL VECCHIO MAESTRO di Vasilij Grossman (1)

Come dovrebbe essere un maestro? Quali figure di maestri ci ha dato la vita? Quali la letteratura e il cinema? A quali maestri, incontrati nella vita o nell’arte, vorremmo assomigliare? Di quali avremmo voluto essere allievi?
Recentemente ho letto un racconto di Vasilij Grossman - scrittore russo del secolo scorso, famoso per Vita e destino - dal titolo Il vecchio maestro, scritto nel 1943 e ambientato in una cittadina dell’Ucraina, la parte di Russia che subì l’invasione delle truppe tedesche e italiane prima che il generale Inverno le costringesse al ritiro.
In questo racconto, la drammatica vicenda della popolazione russa nell’attesa angosciosa dell’arrivo dei tedeschi, e la vicenda ancor più tragica degli ebrei dopo l’occupazione tedesca, viene raccontata attraverso la figura, i pensieri e le azioni del vecchio maestro ebreo della cittadina, Boris Isaakovic Rozental.
Così Grossman lo descrive nelle prime righe del racconto:

“Con il bel tempo Boris Isaakovic scendeva in cortile. Non portava con sé i libri di filosofia: si godeva il baccano dei bambini, le risate e gli alterchi delle donne. Si sedeva sulla panchina accanto al pozzo con un volumetto di Cechov. Teneva il libro aperto sulle ginocchia e, lo sguardo fisso sempre sulla stessa pagina, restava lì, con gli occhi socchiusi e il sorriso assonnato dei ciechi che tendono l’orecchio ai rumori della vita. Non leggeva, ma i libri erano un’abitudine talmente inveterata che gli sembrava comunque necessario accarezzare una copertina ruvida e misurare con le dita tremanti lo spessore della carta. “Il maestro s’è addormentato” commentavano le donne sedute poco distante, e tornavano tranquillamente  a parlare dei propri affari come se fossero state sole. Il maestro, invece, non dormiva. Si godeva il tepore della pietra scaldata dai raggi, respirava l’odore della cipolla e dell’olio di girasole, ascoltava le più anziane che parlavano di generi e nuore, e intanto il suo orecchio coglieva la frenesia crudele e indiavolata dei giochi dei bambini. A volte le pesanti lenzuola bagnate appese ad asciugare sbattevano come vele al vento, e anche il suo viso finiva per inumidirsi. E lui immaginava di essere tornato giovane, studente universitario che andava per mare in barca a vela.
Amava i libri, che non erano un muro fra lui e la vita. La vita era Dio. E lui conosceva Dio – vivo, terreno, peccatore – per aver letto gli storici e i filosofi , per aver studiato artisti più o meno grandi che, ognuno nei limiti delle proprie forze, avevano cantato, assolto, accusato e maledetto l’uomo su questa bellissima terra.

Colpisce questo stare del maestro in mezzo alla vita semplice che si svolge attorno a lui, nel cortile del caseggiato in cui abita. Colpisce la sua attenzione, talmente quieta da esser scambiata per sonno, per le minime sensazioni che gli giungono: il tepore del sole, gli odori della cucina, le piccole gocce portate dal vento, i racconti delle donne e i giochi talvolta crudeli dei bambini (che rispecchiano la crudeltà attorno, la violenza della guerra alle porte). Le sensazioni talvolta generano in lui ricordi, o riflessioni. Tutto questo perché tra il maestro, i libri e la vita, c’è un rapporto di circolarità virtuosa. I libri non sono un muro dietro cui difendersi, ma uno strumento per penetrare sempre più in profondità la vita, un alimento che nutre la sua attenzione alla vita. La vita, ci dice Grossman, è l’uomo e i suoi rapporti con gli altri uomini. E lì c’è Dio, il Dio incarnato nella storia e nel cuore dell’uomo.
La ricerca di Boris Isaakovic - non solo nei libri, ma anche nei rapporti tra le persone - della verità e del bene, il tentativo di comprensione del miracolo della bontà umana, che ancora a ottantadue anni è presente in lui, pur rimanendo alla fine costantemente mistero, risalta nelle righe successive.

“Se ne stava in cortile e sentiva la voce stridula dei bambini: “Attenzione, una farfalla! Fuoco!”. “L’ho presa! Ammazziamola a sassate!”. Quella crudeltà non lo spaventava: la conosceva e non l’aveva mai temuta, in ottantadue anni di vita. Katja, sei anni, figlia del defunto tenente Vajsman, gli si avvicinò con il suo vestitino lacero, trascinando le galosce sulle gambette sporche e piene di graffi, e gli allungò una frittella acida e ormai fredda dicendo: “Mangia, maestro!”. Lui la prese e la mangiò fissando il visino smunto della bimba. Mangiava e nel cortile scese di colpo il silenzio; tutti – vecchie comari e giovani spose dal seno prosperoso dimentiche dei mariti, così come il tenente Voronenko senza una gamba disteso su un materasso sotto l’albero – guardavano il vecchio e la bambina. A Boris Isaakovic era caduto il libro, ma non lo raccolse, troppo preso a fissare quegli occhi enormi che lo osservano – attenti, avidi – mentre mangiava. E gli tornò la voglia di comprendere il miracolo della bontà umana che l’aveva sempre stupito, e la speranza di carpirlo a quegli occhi di bambina. Ma vuoi perché quegli occhi erano così scuri, vuoi che glielo impedissero le lacrime, per l’ennesima volta non vide né capì nulla.

Nella sua lunga vita, Boris Isaakovic è stato maestro di quasi tutti gli abitanti della cittadina, e alcuni di loro cercano di convincerlo a lasciare la città, perché i tedeschi sono alle porte. Ma lui obietta che bisognerebbe aiutare a fuggire anche gli altri abitanti del caseggiato, i più deboli, come “il nostro Voronenko” senza una gamba, e una donna col figlio a cui hanno ucciso il marito soldato. Il suo sguardo non è mai fisso sulla sua persona, ma su di sé e le persone che gli stanno intorno, in una rete di relazioni non recidibili. Il maestro - come il medico della città, anche lui ebreo, sua figura speculare che sceglierà alla fine di darsi la morte - è combattuto tra il partire e il restare. Chiede al medico, in ogni caso, di procurargli del veleno, perché possa morire con la propria dignità intatta, senza subire la morte inflittagli dal nemico. Di fronte al rifiuto categorico del medico, il maestro cita Epicuro: “Epicuro diceva che per amore della vita, se la sofferenza si fa insopportabile, il saggio può anche uccidersi. E io amo la vita tanto quanto Epicuro”.

Quando le truppe naziste occupano la cittadina, i traditori e deboli di spirito si levano dal fondo di fiumi e laghi, e durezza, egoismo e indifferenza contagiano i cuori: “Quella notte la cittadina era stretta nella morsa di quanto di cupo, cattivo, fetido e sporco si era risvegliato, smosso dall’arrivo dei nazisti”. A farne le spese nel caseggiato sono i coniugi Voronenko e il loro bambino e la vedova Vajsman con la sua bambina, che vengono sfrattati dal giovane proprietario disertore, che dopo mesi di reclusione in soffitta può uscire e riprendersi il pianterreno della casa, indifferente al destino di chi per decisione del Soviet cittadino vi occupava una stanza.“Quelli che erano stati sbattuti fuori di casa restarono fino a sera in silenzio accanto ai propri fagotti, ma quando cominciò a fare buio il maestro uscì e disse: “Prego, venite tutti quanti a casa mia”. Da impietrite che erano, le donne scoppiarono in singhiozzi. Il maestro raccattò un paio di fagotti e andò verso casa. La sua stanza si riempì presto di involti, pentole e valigie tenute insieme con il fil di ferro e lo spago.”. La sera stessa, parlando con Voronenko, il maestro riesce ancora a dire: “Più rifletti sulla vita, meno la capisci. Tra poco smetterò di pensarci del tutto, ma prima dovranno spaccarmi il cranio. Per ora i carri armati tedeschi non sono in grado di vietarmi di pensare. E io penso alla pace”. In lui ritroviamo perfettamente realizzata la circolarità virtuosa di pensiero e azione. Pensiero e azione conseguente, azione e riflessione conseguente sono sempre congiunti.

(Fine prima parte)
Chiara Aliprandi