Io che vago nel buio


Io
Che vago nel buio
In una foresta
Senza un'anima viva
Così si è espresso in una poesia un mio alunno. Un ragazzo difficile, in apparenza irrangiungibile e ostile. Spesso manifestava il suo vuoto interiore con l’aggressività, con l’insulto gratuito. Era facile pensarlo come un ragazzo irrecuperabile, strafottente e insensibile come spesso veniva giudicato. Ma pian piano, tentativo dopo tentativo ha rivelato in questa sua piccola poesia tutta la sua sofferenza. Un inizio da cui sono partita per un dialogo in punta di piedi.
L’unico suo riferimento era il suo “gruppo” o, come viene chiamato dai mass media, “il suo “branco”. Ragazzi soli che si fanno forza unendo la loro rabbia. Ragazzi che non hanno la capacità di esprimersi, di rendere comprensibile agli altri la loro situazione di “diseredati” dalla vita. Eppure anche in loro abitano quelle “domande” di cui parla la Zambrano e che abbiamo citato in un precedente post a cui dovremo saper rispondere, ma di fronte cui siamo muti. Noi adulti taciamo e loro si rifugiano nel gruppo. E così diventano i ragazzi da cui tutti dobbiamo difenderci.

“Il ragazzo “prova “il desiderio di avere proprietà comuni che lo rendano leggibili al mondo in quanto inquadrabili ma falsamente intelligibili. Nella realtà più profonda però ognuno aspira ad uscire da questo tipo di definizione di se stesso per essere quello che è, qualunque cosa esso sia, che rimane nascosto dietro una definizione. Vuole cioè essere una singolarità esposta qual è e così amabile”
Giorgio Agamben - “La comunità che viene”

Marco avrebbe voluto essere compreso, avrebbe voluto capire perché i suoi genitori erano separati, perché suo padre aveva picchiato sua mamma e perché sua mamma ora non era mai in casa e lui era sempre solo. Ma non diceva nulla, perché per questo avrebbero giudicato non solo lui, ma la sua famiglia.
La solitudine dice Jung: “è sperimentata proprio come percezione dell’impossibilità di comunicare i propri vissuti e i propri più intimi pensieri”.
Solo scambiandosi le loro storie i bambini e i ragazzi possono ritrovare relazioni paritarie e non ricadere in quelle relazioni  che Ricoeur chiama “diseguali” in quanto “mettono in rapporto le differenze in maniera gerarchica, quali quelle tra diverse razze, religioni, culture, generi, differenze di fatto vissute in termini di disuguaglianza”.
Ci sono molti bambini, ci sono molti ragazzi che, proprio quando sono in mezzo agli altri, sentono un senso profondo di solitudine. A questo senso di solitudine possono reagire come Marco o, peggio, chiudendosi in se stessi e nascondendo i propri sentimenti.  Sono bambini e ragazzi che si sono trovati davanti ad un’indifferenza ripetuta, e vivendo tra gli altri, cercando comprensione, hanno incontrato solo delusione e amarezza. Si sentono soli e diversi. Quasi hanno paura di esistere nella propria diversità. Un senso di solitudine che non riescono ad esprimere, che li porta a nascondere i propri sentimenti, in un certo senso ad archiviarli perché sentono che sono incomunicabili, indicibili e sono convinti che nessuno possa condividerli.

Davvero non possiamo fare nulla per loro? Non dovremmo aiutarli a ritrovare la voglia di parlare di loro, non dovremmo insegnare a tutti l’arte dell’ascolto? Davvero non è possibile cercare in loro quell’umanità che rimane sepolta dentro per la nostra indifferenza. Cosa sappiamo, come società, offrire ai nostri ragazzi, a quelli che non hanno una famiglia che sappia o possa occuparsi di loro? Vivono molte ore nella scuola per tanti anni, non dobbiamo chiederci come aiutarli ad esprimere se stessi ed il proprio disagio?
Dovremmo avere ben in mente alcuni principi-guida: primo fra tutti, nessuno dovrebbe mai sentirsi solo nell’affrontare problemi in cui si sente imprigionato.
Non è raro sentire certi giovani che si lamentano per essere stati inondati di immagini ma privati di parole” e che dicono “Ci hanno mostrato tutto senza dirci niente”  e allora "bisogna anche ammettere di non avere loro insegnato il piacere dello scambio verbale  nell’anticipazione e nel differimento di ogni atto”.

Monique Selz -  Il pudore