Ognuno ha diritto alla propria storia

Ognuno di noi nel proprio correre disordinato non ricalca mai le stesse orme di un altro, non ripete mai il medesimo percorso.
“La vita è tracciata da passi umani sul terreno dell’imprevedibilità e della contingenza. Fragile ed esposto l’esistente appartiene ad una scena mondana dove l’intreccio con gli altri esistenti è impadroneggiabile e potenzialmente infinito. Come nelle Mille e una notte, le storie si intrecciano con le storie. Ma isola nella chimerica completezza del suo senso, una non può stare senza l’altra”
Così dice la filosofa Adriana Cavarero e nella sua concezione, ogni essere umano è diverso da tutti quelli che vissero, che vivono e che vivranno, ma non per questo è separato da qualsiasi altro. Anzi, la relazione con l'altro è necessaria e ognuno ha bisogno di essere riconosciuto proprio nella sua unicità.
Chi ciascuno è lo rivela agli altri quando agisce al loro cospetto su un teatro interattivo dove ognuno è, al tempo stesso, attore e spettatore.
Oggi è sempre più difficile trovare luoghi e spazi in cui parlare, in cui ognuno sappia ascoltare l'altro e l'altro possa "raccontarsi", ma il desiderio che anima chi racconta se stesso è quello di veder riconosciuta la propria esistenza da parte del destinatario del suo racconto.
Come ha detto lo scrittore italiano Antonio Tabucchi in una recente intervista:
"Se perdessimo definitivamente la capacita di narrare non riusciremmo più a vivere dentro noi stessi, la vita diventerebbe un caos completo, una grande schizofrenia in cui esplodono come in un fuoco di artificio i mille pezzi delle nostre esistenze, perché, per ordinare e capire chi noi siamo, dobbiamo raccontarci”.
“L'uomo è diventato "civile", ha inventato se stesso e ha inventato la Storia, ha imparato a vedersi e a capirsi quando ha imparato a raccontarsi, anche in una maniera molto semplice, molto primitiva con le rappresentazioni artistiche e pittoriche delle grotte. L uomo è entrato nella civiltà che conosciamo quando ha imparato il racconto”.
Questo è vero per noi adulti, ma lo è tanto più per un bambino o un ragazzo anche a scuola, nell'aula dove trascorre molto del suo tempo e della sua vita relazionale.
Il primo diritto di un bambino, quando entra a scuola, è quello di essere riconosciuto nella sua storia qualunque essa sia, di essere riconosciuto come soggetto unico e irripetibilie. Non è in gioco semplicemente la volontà di stabilire un contatto con altri, ma più profondamente quella di condividere il proprio mondo, di sentire riconosciuta la propria voce e, con questa, la propria esistenza e la propria sensibilità: un riconoscimento che è il contrario del disprezzo, o di quella forma particolare e sottile di svalutazione degli altri che consiste nel non prestar loro ascolto.

Il prestar loro ascolto è un impegno etico: è il riconoscimento che dà dignità, che attribuisce un certo valore.
E’ chiaro quindi che la prima attenzione di ogni insegnante è proprio per la storia, dei suoi allievi per il loro modo di viverla o di soffrirla interiormente.
Quello che fa veramente male non è il dolore, non è la sofferenza. Sofferenza e dolore appartengono alla vita, sono compagni fedeli di ogni esistenza. Quello che fa veramente paura è quel senso di solitudine che fa perdere loro il contatto con gli altri, con il mondo, con se stessi quando non vengono compresi. E’ l’incapacità e l’impossibilità di comunicare: proprio quando ne sentirebbero il bisogno, quando le parole e i pensieri si dissolvono alla presenza dell’altro.

L'immagine è di Quentin Blake